Trasmissione TV “Faccia a Faccia” con Camillo Privitera, presidente AIS Sicilia

Vi ricordate il Perozzi? Philippe Noiret nei panni indimenticabili del capocronista della Nazione in Amici Miei di Mario Monicelli? Era sua, nel film, una delle frasi destinate a diventare tra le più famose della cinematografia italiana.

Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.

Come il Perozzi – o come il Necchi durante una famosa cena da imbucati – anche il sommelier entra a buon diritto nel novero degli uomini dotati di genio. E se la fantasia è dote in genere innata, intuizione, decisione e velocità sono pregi da conquistare col duro lavoro, sia esso tra i tavoli di un ristorante o per la nuova campagna di comunicazione di una cantina.

Lo sa bene Camillo Privitera, presidente per la regione Sicilia dell’Associazione Italiana Sommelier, intervistato ieri sera su Antenna Sicilia dal giornalista Luca Ciliberti per la trasmissione Faccia a Faccia.

Se il vino italiano oggi gode di buona salute – pur aspirando sempre a ulteriori margini di miglioramento, esordisce il presidente – è anche per quel genio che tanto caratterizza le centinaia di professionisti del settore. Un settore sempre più in crescita, alimentato da giovani – donne e uomini – animati da passione e allettati dalle ampie possibilità lavorative offerte.

Un mondo, quello del vino italiano, profondamente segnato, trent’anni fa, dal famoso scandalo del vino al metanolo, il quale costrinse una intera filiera nazionale ad un approfondito esame di coscienza. Il risultato, continua Camillo Privitera, fu un forte miglioramento dell’Italia del vino, fatto di crescita e aggiornamenti nel campo della valorizzazione e della comunicazione. Se è vero che una ricerca del prezzo più basso a tutti i costi potrebbe portare persino oggi a qualche spiacevole sorpresa, dell’ottimo vino si compra bene anche al supermercato. Non sempre, dunque, vino costoso vuol dire vino eccezionale, e se zone vitivinicole particolari per pregio e tradizione qualitativa garantiscono grandi risultati, non è necessario svenarsi per godere di una buona bottiglia.

Complice la maggiore consapevolezza dei consumatori e l’inclinazione generale ad un consumo più rispettoso dell’ambiente e della salute, il vino italiano è dunque in crescita. Ampliare tale consapevolezza spetta anche al sommelier, subissato come mai prima di curiosità. Ad esempio, se nel mondo dei bevitori compulsivi è facile passare dalla posizione verticale a quella orizzontale, nel mondo del vino professionale i due aggettivi hanno un significato più morigerato: rispettivamente sequenza di più annate del medesimo vino e del medesimo produttore, e sequenza di più vini della medesima annata, analoghi tra loro ma di produttori diversi.

Una consapevolezza, quella dei consumatori, fertile allo smascheramento di alcuni dei più ostinati luoghi comuni, di cui Luca Ciliberti propone qualche esempio al presidente.

Sono i vini francesi ad essere migliori?  Migliore è di certo la loro capacità di comunicare qualità, di generare valore emotivo, e dunque economico.

La carne non va per forza con il vino rosso. E il  pesce abbinato necessariamente col bianco? Un ricordo dei più trucidi spot degli anni Ottanta. Ad esempio la famosa ricetta catanese del tonno con cipolla e capperi, dice il presidente Privitera, non sfigurerà certamente su alcune tipologie di rosso!

Potrebbero essere solo un ricordo, un giorno, le guerre natalizie da bollicine, quando l’esercito dello spumante dolce si scontra con quello del brut per il predominio del panettone. Se è vero che lo spumante dolce si abbina con i dolci, e che il Tartufone Motta (per rimanere in zona Ottanta) sarà pure bon ma non col brut, Camillo Privitera ricorda quanti limiti al piacere della tavola si nascondano dietro questo irriducibile dualismo: dal brut nature in poi, sono almeno sette i gradi di dosaggio delle bollicine da potere orchestrare lungo il pasto. E se la scelta del bicchiere più adatto, in questo periodo di enomaniacalità , rischia di accendere di nuovo gli animi, niente paura, ecco una terna essenziale per non scadere nella mania del collezionista compulsivo: flûte classica per un prosecco giovane, una flûte più ampia e bombata per Metodo classico o Champagne, una coppa per una bollicina a base di moscato e per le bollicine dolci.

Tear down this wall! insomma, come gridava il presidente Reagan ai tempi del muro di Berlino. Giù il muro anche per il presidente di AIS Sicilia; muro puramente ideologico per fortuna.

E il tappo di sughero? Non è necessariamente l’unica chiusura ammessa, l’unica sinonimo di qualità. Basta rivolgere lo sguardo all’estero, dove, un po’ per i costi e un po’ per concezione enologica, il tappo a vite – per citare una tipologia aliena al sughero – viene spesso impiegato al servizio di vini nati per essere consumati in pochi anni.

La vita stessa, del resto, è troppo breve per bere vini mediocri. Lo diceva Veronelli, o forse Goethe. Al di là della paternità dell’aforisma, il dramma è un altro: come si giudica, secondo il presidente, un vino mediocre?

Con una buona educazione al vino e al bere.  Una educazione tecnica, ma anche sentimentale – per tornare alla letteratura – magari meno disordinata di quella del protagonista del romanzo di Flaubert. E se non la si ha? Bisogna farsene una. Nel frattempo è bene rivolgersi a chi già la possiede, ai professionisti, quelli veri, lontani dalle pose manieriste magistralmente interpretate negli sketch di Antonio Albanese, alle prese con uno Chateau Mareau 2004 cru Le Bucheron. 

Così, in generale, il pubblico interpreta il sommelier. Ma dietro il roteare di bicchieri non deve esserci lo spettacolo di un circense, ma una tecnica severa e affidabile di degustazione da parte di un professionista. Perché sollevare quel bicchiere di Chateau Mareau 2004 cru Le Bucheron con la reverenza di Galvano di fronte al Sacro Graal non serve a niente se poi, per dirla ancora con Albanese, il vino fa cagare.

Anzi, dice il presidente Privitera, il saper degustare comincia proprio con la compostezza, col saper servire il vino:  svestire la bottiglia con delicatezza,  versarne il contenuto con gentilezza, affinché possa rivelare le proprie ricchezze senza scossoni. Un vero e proprio rito d’amore tra sconosciuti, quello tra vino e degustatore, fatto di impressioni alla vista, di olfatto, magari alla ricerca degli anni passati del vino – e di quelli propri, perduti, alla Proust – di gusto, e di retrogusto, nel tentativo di fissarne per sempre il ricordo.

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Gherardo Fabretti

Appassionato di leggi e latinorum, in principio fu Giurisprudenza. Laureato, invece, in Lettere moderne, diventa presto redattore per riviste di letteratura e fumetti. Alcolismo vuole che il vino inizi a interessarsi a lui, fino al diploma AIS di sommelier e al master in Gestione e Comunicazione del Vino organizzato da ALMA. Vive a Milano, ma quando può fugge, perdendosi volentieri in varie parti del mondo, perché il viaggio, come diceva Costantinos Kavafis, è “fertile in avventure e in esperienze”. Crede che Venezia sia la porta della felicità e Parigi il rifugio degli ultimi romantici. Non ha problemi con gli aerei ma a New York preferirebbe arrivarci in nave. Mentre organizza una breve gita in Mongolia, cerca compagni per il viaggio.

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