Padre, figlio e spirito enoico: la confraternita dell’uva di John Fante

41ecuv2hkdlChi col proprio padre ha un conflitto irrisolto, magari movimentato da un trentennio di urla, litigi e rancori assortiti, farebbe bene a non leggere La confraternita dell’uva (o forse gli farebbe bene il contrario), perché Nicholas Molisemuratore abruzzese trasferitosi una vita fa a St. Elmo, in Colorado, non è solo un vecchio ubriacone tirannico e scorbutico, ma un prepotente figlio di puttana di categoria premium. Lo aveva voluto così John Fante, già noto a mezzo mondo per Chiedi alla polvere, in un freudiano omaggio al proprio padre, Nicola (guarda un po’), immigrato abruzzese di Torricella Peligna.

Trascinato a forza dalla calda California da una telefonata del fratello Mario, preoccupato per la furiosa litigata tra i genitori, lo scrittore di Hollywood Henry Molise si ritrova in Colorado a gestire prima le escandescenze della madre per l’ennesima storia di corna e, ben presto, per distrarre il padre, ormai ottantenne, dalla folle pretesa di tirare su, con l’aiuto del figlio, un affumicatoio in muratura su in montagna, a monte Casino; ultima opera – a dire del genitore – a coronamento di una carriera durata più di sessant’anni. L’arrivo in Colorado prima, e il lavoro in montagna poi, diventano ben presto i due movimenti di un viaggio epico degradato, alimentato ad ogni passo dalle sorsate del vino di Angelo Musso, vignaiolo a venti miglia a est di St.Elmo.

Di che vino, e di quale vitigno si trattasse, difficile dirlo.

Da cinquant’anni tracannavano il Chianti geniale e il Chiaretto delle viti di quelle colline rocciose.

Sangiovese, dunque; o forse Montepulciano, trascinato anta anni fa da Angelo dalle campagne abruzzesi. O Barbera magari, portata fin lì da un Musso precedente, lasciando supporre, quel cognome, antiche immigrazioni piemontesi.

Chianti o Montepulciano d’Abruzzo made in Zio Sam poco importa: è meglio morire di bevute che morire di sete; questo il motto di Angelo. Una massima presa alla lettera dal vecchio Nick e dalla sua confraternita di ubriaconi, Zarlingo, Cavallaro e Antrilli, sepolti giorno e notte al Cafè Roma, isola di ostinata italianità paisana in un mare di inglesi protestanti. Loro, gli americani WASP, convinti che gli italiani fossero creature di sangue africano, che girassero tutti col coltello, e che la nazione si trovasse ormai nelle grinfie della mafia; suocera di Henry inclusa.

È proprio Henry, americano di nascita e scrittore a Hollywood, perseguitato dalle proprie origini e a quelle incatenato dai massicci pranzi domenicali della madre, a non trovare alcun fascino in quella ghenga di strambi, irascibili, duri individui da previdenza sociale, buona a ingannare le ore tra una smazzata di carte e l’altra, rintronandosi con litri di vino. Vino, non birra, vessillo ostinato e immediato di italianità in una terra, quella statunitense, mai realmente percepita come propria. E non un vino qualsiasi: quello di Angelo, verso il quale quei vecchi bastardi, maligni e aspri, riponevano un amore ai limiti del credibile.

Non erano soltanto clienti di Angelo: erano, in effetti, i suoi schiavi, angosciati quando il raccolto andava male, poiché il suo vino era come il latte della loro seconda infanzia, recapitato una volta al mese davanti alla porta dei clienti in boccioni da un gallone…

È dunque Angelo Musso il degno sacerdote di quella masnada, incaricato di benedire la decadente odissea in cima alla montagna: uno gnomo calvo tutto raggrinzito, carbonizzato dal sole, con gli occhi fulvi del colore del vino moscatotroneggiante e panciuto come un sileno sotto un pergolato di viti così fitto da fermare ogni raggio di sole. 

Anche se non si tratta di conquistare una città ma di tirare su un affumicatoio sghembo, quella del vecchio Nick è una vera Odissea, seppur degradata. Come Ulisse a metà del viaggio aveva fatto scorta di otri di vento a casa di Eolo, così Nick riempie i suoi boccioni del chiaretto di Angelo prima di incamminarsi sul colle pelato di monte Casino, lo scenario del duro confronto tra padre e figlio, destinato a sciogliersi, manco a dirlo, tra ettolitri di rosso, salvo avvampare, al ritorno, più violento di prima, tra le vigne di Angelo, fedele più che mai al suo ruolo di satiro infame, per infrangersi, infine, con muta calma, sul letto di un ospedale.

Solo il vino, nient’altro, riesce a dettare la vita e la morte dell’anziano Nick. Come una penosa e tragica transustanziazione, il vecchio tiranno italo-americano vede nel vino il sangue di cui necessita per campare; e per morire. Lo capirà Henry, e capirà quel vino, il suo carico miserabile di resistenza autodistruttiva; lo apprezzerà quel vino Henry, e forse lo perdonerà, quel vecchio, miserabile, tragico ubriacone.

John FanteLa confraternita dell’uva, Einaudi 2004 – Titolo originale: The Brotherhood of the Grape (1977)

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Gherardo Fabretti

Appassionato di leggi e latinorum, in principio fu Giurisprudenza. Laureato, invece, in Lettere moderne, diventa presto redattore per riviste di letteratura e fumetti. Alcolismo vuole che il vino inizi a interessarsi a lui, fino al diploma AIS di sommelier e al master in Gestione e Comunicazione del Vino organizzato da ALMA. Vive a Milano, ma quando può fugge, perdendosi volentieri in varie parti del mondo, perché il viaggio, come diceva Costantinos Kavafis, è “fertile in avventure e in esperienze”. Crede che Venezia sia la porta della felicità e Parigi il rifugio degli ultimi romantici. Non ha problemi con gli aerei ma a New York preferirebbe arrivarci in nave. Mentre organizza una breve gita in Mongolia, cerca compagni per il viaggio.

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