Il grande cibo-vino pensiero
A ritmo incessante, come tamburi e vocalismi Masai, si leva alto il latrare (nel senso di animalesca fedeltà, vista l’origine) di chi fra social network e altri inventati strumenti di comunicazione ci informa di degustazioni memorabili, che elevano alla massima, nell’olimpo orgiastico organolettico, il carattere dei liquidi fermentati. Territori, vitigni, aziende sono un tourbillon perfetto per chi, orribilmente e miseramente, cerca riconoscenza, visibilità e, molto più prosaicamente, un (buon) pezzo di pane: l’invito a qualche evento – fondamentale da fotografare e immediatamente pubblicare per far capire (agli amici) quanto si è importanti – e la possibilità di portare a casa un “omaggetto”.
Nella Malora (Ah, Fenoglio!) la professione di sommelier emergeva sana, onesta: giravigne, giracantine e girabicchieri, in cui il roteare nasceva non da calici levati in alto ma dalle lunghe chiacchierate con chi aveva mani grosse da campagna, il cui sudore sembrava una piccola distilleria, dove le gocce che attraversavano la fronte raccontavano di faticosi solchi, di anni o millesimi. Si rincasava ebbri perché arricchiti da una conoscenza, un sapere, che partendo dall’esperienza era già futuro: erano quelle – e lo sono ancora – le basi per conoscere, e di conseguenza per costruire.
Invece mi ritrovo a vedere, non più a leggere. A parte qualche raro caso in cui si coniugano competenze e capacità di scrittura, nessuno scrive più (ma sapranno scrivere?): pubblicano solo foto, o ripetitive e sterili descrizioni, senza alcuna informazione, osannanti le qualità dei prodotti degustati. Cerco rifugio, allora, nelle pagine di Piero Accolti: da lui ho imparato ad amare lo champagne, grazie alle descrizioni dei paesaggi e dei volti degli uomini. Quando ho bevuto quel vino era come se lo avessi già conosciuto.
Allo stesso modo, da tempo, sono tornato ad affezionarmi al cuoco, quello vero, alle prese con padelle e pentole fumanti, magari mentre canta in tono con fritti, paste e risi, accucciati al caldo del fuoco, a cui la mano del cuoco dà voce per esprimersi, per intonare nuovi pezzi rock e antichi adagi, quelli che richiamano profumi profondi, lontani tanto quanto la nostra coscienza e conoscenza.
Vuoi mettere quelle panze con quei fisici da chef, coadiuvati da altri personaggi in microfono e telecamera? Quegli chef realizzano preparazioni, non cibi; piatti da gustare, ma solo per gli occhi, per la televisione; storie, dove il racconto è mirabolante, iperbolico, servito però con parole semplici, elementari, quindi mediocri. Perché per arrivare a tutti bisogna servire un bel pezzo di mediocrità, regalando l’illusione che tutti possano parlare di vino, che tutti possano realizzare un grande piatto di cucina.
Sto invecchiando. Io preferisco pensare al cibo, al vino; e alla tavola, il posto dove si concretizzano gli incontri, dove mangiare, bere, magari ascoltare musica, diventano i mezzi per entrare in relazione con il mondo. Ho scelto di volermi bene, senza caciara, parola che uso nei suoi diversi significati. Quindi mangio e bevo di qualità, per gratificarmi, non solo per nutrirmi.
Cane Randagio