I grassi secondo Moss
Nel buio della stanzetta a mezza pensione, il quarantenne James Kraft, armato di cucchiaio, rimesta da un quarto d’ora il colloso preparato del pentolino. Immigrato canadese, Kraft credeva fortemente nel sogno americano, e dopo avere lasciato la fattoria nell’Ontario, aveva svolto mille lavoretti, fino al 1912, quando decise di diventare ambulante di formaggi. Il suo cheddar, comprato all’ingrosso prima dell’alba, pur amato dai negozianti per l’elevatissima qualità, non riusciva però a garantirgli una dignitosa sussistenza: nonostante le buone vendite, infatti, lo scarto causato dai vari porzionamenti condannava l’uomo ad una quotidiana perdita secca, senza contare il crollo estivo delle vendite, quando il cheddar finiva per deteriorarsi a causa del caldo.
Per chiunque quella pappetta furiosamente rimestata, una sera del 1915, era tutta qui, formaggio, ma per l’uomo rappresentava la scappatoia per un futuro migliore. E ci riuscì. Kraft si rese subito conto della bontà di quella miscela di grassi e proteine, facilmente versabile in vasetti di vetro, alla larga dai capricci delle stagioni e comodamente spalmabile su una fetta di pane.
Da decenni leader dell’industria alimentare, dal 2012 divisa tra Kraft Inc. e Mondelēz International Inc., non c’è marchio al mondo capace di vantare più conoscenze ed esperienze sulla creatura a cui deve tutte le proprie fortune: il grasso.
Supereroe della cucina da scaffale, i grassi migliorano la croccantezza delle patatine, la morbidezza del pane e dei cracker, il gusto della carne, il volume dei biscotti; limitano la gommosità degli hot dog, mascherano gli altri sapori quando necessario e, cosa più importante, garantiscono una lunga sosta dei prodotti tra le corsie dei supermercati, conservandone l’integrità anche per mesi. Impossibile rinunciare!
E il cervello umano sembra d’accordo, a sentire Adam Drewnowski, laurea in biochimica a Oxford e dottorato di ricerca in psicologia matematica alla Rockfeller University di New York. Nel 1982, coinvolte sedici persone nell’assaggio di venti diverse miscele di latte, panna e zucchero, il risultato era sempre lo stesso: “a prescindere dalla pesantezza dei cibi, i grassi erano così gradevoli per il loro cervello che questo non emetteva mai il segnale di smettere di mangiare”. A differenza degli zuccheri, dunque, non esiste bliss point per i grassi. E se il grasso era unito allo zucchero, tanto meglio: i due ingredienti si esaltavano a vicenda, raggiungendo livelli di attrazione che non riuscivano a raggiungere separatamente.
Quindici anni dopo, Drewnowski giunse ad una terza scoperta: chiamata una cinquantina di volontari, col compito di valutare la diversa grassezza di quindici formule diverse di glassa per torte, variabili in zuccheri e grassi, si rese conto della totale incapacità del cervello umano di soppesare, seppur discretamente, il quantitativo di grassi contenuto. Una manna per i produttori di cibi, liberi di aggiungere a minestre in busta, biscotti, patatine, surgelati e quant’altro, generose quantità di grassi per spingere le vendite: una droga silenziosa e invisibile a scorrere tra le vene dei consumatori. Uno spettro si aggira da allora per i supermarket: non la demoniaca sagoma del lavoratore bolscevico, ma una soffice, pastosa, deliziosa patina di materiale organico chiamata grasso.
Vedi anche le precedenti puntate: Il triangolo della morte secondo Michael Moss, Gli zuccheri secondo Moss, Il sale secondo Moss