Il diavolo in Monferrato
Il romanzo di Cesare Pavese, Il diavolo sulle colline, fu scritto nel 1948 e pubblicato l’anno successivo. Oltre all’indubbio valore poetico, la storia, con tutte le cautele della finzione, apre anche una interessante finestrella sullo stato delle campagne vitate piemontesi nell’immediato secondo dopoguerra, suggerendo riflessioni di grande attualità.
“Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai.”
Ci sembra di rivederli, Oreste, Pieretto e l’anonimo narratore, seduti su una panchina serale, schienati ai Murazzi o in piazza Vittorio, a fissare il pulviscolo di luci delle colline torinesi sulla sponda opposta del Po.
Cosa faceva quel trio scombinato di nottambuli “finito il cinema, finite le risorse, le osterie, i discorsi?” Un posto nel mondo, si risponderebbe d’istinto, ma l’avventura seminata da Pavese era in realtà assai più complessa: perché prima di trovare posto nel mondo, è il giusto mondo a dover essere cercato.
Quale scegliere? Quello dei mercati, delle osterie, delle piazze; del rombare di via Nizza, del fortore di piscio di Porta Nuova, delle colazioni al parco del Valentino? Perché “viene il momento che anche i parchi finiscono” e il mondo cambia: “viene il bosco e la vigna”, la campagna, lo stato brado.
La risposta arriva presto: tra il bosco e la vigna. Così il cittadino Pieretto e il narratore si incammineranno alla volta della vecchia casa rurale della famiglia di Oreste.
Quale campagna? Benché lasci intendere la breve distanza con Torino, il luogo, San Grato, fa pensare ad Agliè: con ogni probabilità, dunque, c’era il Monferrato nella testa di Pavese, rosseggiante di ettari di dolcetto e barbera e già all’epoca (nel dopoguerra) secolarmente scosso dai nuovi malanni dell’oidio e della peronospora.
In quella campagna i ragazzi consumeranno la propria adolescenza, rimbalzati tra la cascina del padre di Oreste, punto già traballante di un mondo in via di mutamento, e il gerbido casale del Greppo, santuario deviato di una campagna ormai pervertita.
Lì diventeranno uomini, tra il nero del fango e il giallo delle melighe: è lo sporcarsi con la terra a segnare il loro passaggio dalla gioventù all’età adulta.
Un contatto, quello del terzetto, non mediato dagli strumenti propri della campagna: lavorata dai contadini a suon di zappa, sparsa dai ragazzi addosso a mo’ di corazza, in una palude, sublimata a illusorio mezzo di regressione.
Roba da ragazzi l’annerirsi. Non lavora la terra la piccola Dina, sorella di Oreste, perchè “fa venir neri”. E diventar neri “è un lavoro da uomini”. Anche un’ attività riservata alle ragazze, come raccogliere fiori da portare alla Madonna, rende neri, obiettano a Dina, ma è una replica debole: i fiori non portano soldi dalla campagna. E nemmeno passarsi addosso la fanghiglia.
Sono fuori dal mondo dei campi, infatti, quei ragazzi. Non lavorano la terra, non potano il vigneto.
Ma anche i vigneti sono fuori dal mondo, almeno da quello immaginato dai tre. Il vigneto, per Pavese, è metafora del mondocontemporaneo.
L’antico Eden vagheggiato è andato in malora da tempo, con buona pace del carrettiere di un breve dialogo, per il quale “le vigne ci son sempre state”, perché “non è mica come fare una casa”. Il vigneto è la casa. Come il frassino lo era per i popoli nordici: Yggdrasill, il leggendario albero piantato a reggere nove mondi.
Ma quale vigneto? Quelle del padre di Oreste, a San Grato, dove i contadini inondano di fosfati i filari con le pompe a spalla.
“Una volta – gli dissi – facevano l’uva senza tanti bagni”, fa presente il narratore. “Va’ a sapere come facevano una volta”, risponde l’uomo.
Una volta, tanto tempo fa. È l’incipit più noto delle fiabe l’unico adatto al dialogo, l’unico abile a maneggiare la trama di un tempo così lontano da avere perso ogni senso in quello presente.
Sempre meglio del Greppo, certo, pianoro di vigneti desertificati dall’indolenza del cocainomane Poli, dietro il quale si cela la tenuta dell’amico Carlo Grillo, a Moncalvo; nel Monferrato, ancora una volta. “Una tenuta che, quando il nonno era vivo, compravano soltanto l’olio e il sale”, tanto fruttifero era.
Nell’uno o nell’altro caso, il dramma è comunque evidente: l’Eden è perduto da tempo. “Dov’è più la campagna che piacerebbe a voialtri?” sfotte il cittadino Pieretto.
Non si sa. Non lo sa l’anonimo narratore, né il campagnolo Oreste, nato tra i filari e tra i filari pervertito; nemmeno Pavese lo sa. Troppo giovane, persino lui, nato in Langa nel 1908, per ricordare il grande mutamento in vigna del XIX secolo.
Così il narratore punta un occhio sulla pompa disinfestante, l’altro su una tinozza, “piena dell’acqua innocente, fonda e opaca, come un cielo capovolto”. E capisce. Non è più il tempo della tinozza; è il tempo della pompa, il tempo del compromesso: meglio una mano di ramato, nella vigna come nella vita, perché è “brutta cosa aver la terra e non starci”.
Pavese, invece, aveva scelto la tinozza; nell’unica maniera possibile.