L’insostenibile leggerezza dell’alberghiero

Arlecchino servitore di due padroni

Sei liberissimo di scegliere la scuola che preferisci. Quindi, cosa scegli? Classico o scientifico?

Al termine delle scuole medie, avrete intuito, i miei genitori mi lasciarono completa libertà di scelta. Il fatto è che per loro, e per molti altri genitori del periodo, il panorama scolastico italiano aveva la forma di una piramide: in cima, circonfuso di luce, svettava il liceo classico (all’epoca dei miei, addirittura, unica via d’accesso agli studi universitari), seguito, appena più giù, dai bagliori smeraldini dello scientifico; sotto si collocava il linguistico, poi l’artistico. Nel mezzo del cammino si inseriva il magistrale, giallognolo confine dove il mondo dei licei trascolorava lentamente verso il plumbeo inferno degli istituti, a sua volta ripartito tra il rispettabile istituto tecnico e l’innominabile istituto professionale. 

La signorina Rottermaier, ormai astro del genere porno sadomaso

Se l’italiano non è un’opinione, dobbiamo riconoscere che il pregiudizio nei confronti degli istituti è insito già nel nome con cui è stato identificato. Alzi la mano chi, a quella parola, non associ immagini mentali fatte di carceri, riformatori, sbarre, orfanotrofi e muraglioni di cemento. A quelli della mia generazione comparirà la sagoma della cattivissima Miss Geltrude di Lovely Sarah (ai tempi la cosa più vicina ad un tentativo di suicidio per un ragazzino), magari il profilo superbo della signorina Rottermaier; i cinefili ricorderanno La scuola di Daniele Luchetti, anche se i più scafati mi faranno notare che di istituto tecnico si trattava, e non di professionale.

Al resto pensa il dizionario etimologico. Se liceo viene dal greco lykeios, lucente, splendido, istituto arriva dal latino instituere, ordinare, decretare, ammaestrare. Insomma, chi brilla della luce dell’indipendenza di pensiero e chi è meglio stia in gabbia a ricevere istruzioni.

Intendiamoci, date le mie pessime abilità di disegno non avrei mai optato per l’artistico, e in quanto alle lingue, la mia passione bruciante per una ragazzina tedesca non era motivo sufficiente ad un passo del genere. I miei evidenti problemi con le divisioni a due cifre, poi, mi tolsero dall’imbarazzo: fu liceo classico.

Ai miei tempi (e probabilmente ancora oggi) quella scuola, così scioccamente considerata elitaria, era una inesauribile fucina di quelli che Claudio Giunta definisce mostriciattoli antipatici e reazionari, torri d’avorio umane dove il classicismo assimilato in un quinquennio derivava inesorabilmente verso il classismo più fetido.

Il tipico studente del classico collocava i coetanei degli istituti nel medesimo buco infernale dove i loro stessi genitori ritenevano fosse giusto tenerli. Da dove derivava questo senso di superiorità? Da quella piramide genitoriale, dove si chiariva in maniera eclatante l’ormai secolare distinzione di valore tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Chi, nella vita, non si è mai sentito dire, almeno una volta, se non vuoi studiare vattene a lavorare? Con le mani, beninteso, come l’antonomastico consiglio tutto siciliano di darsi alla muratura ricorda. L’obiettivo era chiaro: meglio la gallina oggi che l’uovo domani. Chi lavora con le mani lavora subito, e non perde tempo e denaro – ammesso che ve ne siano a disposizione sufficiente – per scommettere su qualcosa in più in futuro. Certo, oggi  l’uovo è marcio, e la gallina canta vittoria, ma l’inversione delle parti è cosa assai recente.

Un “pirandelliano” Totò nella Patente di Luigi Zampa (1954)

Cioè che non è recente, invece, è la secolare morte del legame tutto illuminista tra valore delle mani e valore dell’intelletto. La società italiana ha sconfessato il contributo dell’intelletto per i membri degli istituti professionali, bollando come socialmente inferiori i propri figli. Un classismo percepito dagli stessi studenti, alcuni dei quali incapaci di reagire se non con una pirandelliana adesione alla demoniaca veste con cui il mondo liceale li connota: scioperati e ignoranti.

In una guerra del genere la costellazione sgangherata degli alberghieri, parte del sistema  degli istituti professionali, spesso senza fondi e senza mezzi, non poteva che trovarsi male, salvo riprendersi, almeno in parte, negli ultimi anni, con il boom televisivo dei programmi di cucina, meritevoli di avere reso socialmente accettabili, se non addirittura preferibili, mestieri prima considerati poco appetibili. Soprattutto i cuochi, presenti e futuri, sembrano avere guadagnato margini importanti di rispetto, mentre il personale di sala sgomita ancora per un posticino al sole della considerazione, pur potendo volgere a proprio favore sociale serie come Downton Abbey e personaggi quali l’indimenticabile Monsieur Gustave di Grand Budapest Hotel e l’immarcescibile Stevens di Quel che resta del giorno, inetto nella vita ma impeccabile nel mestiere!

Scherzi a parte, oggi è ancora preferibile essere cameriere all’estero piuttosto che a casa propria, lontano dagli sguardi colpevolizzanti di parenti e amici.

Sono spesso le associazioni e gli istituti privati di alto livello, allora, a raccogliere le richieste di tanti ragazzi desiderosi di nobilitare quel mestiere di sala che il proprio diploma, spesso, ma non sempre, non è stato in grado di certificare come rispettabile agli occhi della società e del mondo del lavoro. Una nobilitazione che dovrebbe passare già dalla scuola, almeno per chi decide così presto di incamminarsi su quel sentiero.

Il momento è comunque felice. Se i master in management della ristorazione, in comunicazione e gestione del vino, in import & export vitivinicolo, in tutela dei marchi agroalimentari aprono sbocchi a lauree tradizionalmente ingabbiate in professioni classiche e inflazionate, i corsi di realtà quali AIS, ALMA, FISAR, NOI DI SALA, e via servendo, confutano da anni il teorema secondo il quale a lavorare in sala son buoni tutti.

Stevens, patrono del personale di sala

Non si contano, in tutta Italia, i camerieri e i sommelier improvvisati, mandati allo sbaraglio a botte di voucher (se non in nero) tra fiere, manifestazioni e show di cucina, con numeri significativi anche tra i tavoli dei ristoranti, ai banconi dei bar e persino negli alberghi. L’abitudine, non solo italiana, è quella di arrangiare, complice la facilità di mascherare, dietro un ipotetico tirocinio formativo o uno stage, il bieco sfruttamento di un adolescente, in un contesto, quello del food & beverage, sempre più in crescita, sempre più remunerativo, sempre più in evoluzione.

Provi, chi raccomanda caldamente agli asini di andare a fare il cameriere, a svolgere quei compiti tanto vituperati in un contesto di alto livello, senza alcuna preparazione né attitudine: portamento, tecnica, cultura specialistica e generale, comunicazione e quant’altro fa parte del pesante bagaglio di un professionista.

Provi, il Ministero dell’Istruzione, ad ascoltare le voci degli interessati (e sono tante) levate a promozione del cambiamento; voci già da tempo raccolte dalle associazioni private.

Provi, la società, a rivalutare quel silenzioso esercito di personaggi sorridenti, abili nella nobile arte del servire, del prendersi cura degli altri.

Per allora, magari, il mestiere di cameriere potrebbe addirittura diventare una professione.

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Gherardo Fabretti

Appassionato di leggi e latinorum, in principio fu Giurisprudenza. Laureato, invece, in Lettere moderne, diventa presto redattore per riviste di letteratura e fumetti. Alcolismo vuole che il vino inizi a interessarsi a lui, fino al diploma AIS di sommelier e al master in Gestione e Comunicazione del Vino organizzato da ALMA. Vive a Milano, ma quando può fugge, perdendosi volentieri in varie parti del mondo, perché il viaggio, come diceva Costantinos Kavafis, è “fertile in avventure e in esperienze”. Crede che Venezia sia la porta della felicità e Parigi il rifugio degli ultimi romantici. Non ha problemi con gli aerei ma a New York preferirebbe arrivarci in nave. Mentre organizza una breve gita in Mongolia, cerca compagni per il viaggio.

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