Storia del vino 3
Gaudenti gli Etruschi, ascetici e severi i Romani. Se i primi, prima della conquista, non disdegnavano banchetti e brindisi (e gli splendidi affreschi di Tarquinia, nella tomba dei leopardi, ne sono testimonianza), i secondi vivevano di ferro e latte, lo stesso a cui aveva attinto il leggendario Romolo dalla lupa capitolina. Pur presenti, e in gran parte eredità etrusca, i vigneti della Roma Repubblicana non conosceranno grande sviluppo né attenzione, almeno fino alla grande guerra con Cartagine: quei duri scontri, consumati tra il 264 a.C. e il 146 a.C., costringeranno i severi Romani a confrontarsi, oltre che con gli elefanti di Annibale, con sé stessi e l’evoluzione dei tempi. Sarà, paradossalmente, il duro Catone a trattare per primo delle grandi opportunità della coltivazione della vite, fonte preziosa di reddito per i ricchi proprietari terrieri. Il suo De Agricoltura diventerà ben presto un best – seller, assieme al manuale di agricoltura professionale di Magone: monumentale opera in ventisei volumi, scritta, per ironia della sorte, da un cartaginese, e oggi, purtroppo, perduta.
Sarà Lucio Columella, spagnolo di Cadice, ad aggiornare il manuale di Magone, pubblicando il proprio De rustica intorno al 65 a.C. Sopravvissuta ai terremoti della storia, è l’opera di Columella a garantire ancor oggi le nostre conoscenze sul mondo della vite e del vino nell’antica Roma.
Raramente allacciate a pali di legno, a pergole o a strutture perpendicolari, piantate a circa due passi di distanza ciascuna, le viti, il più delle volte, venivano lasciate libere di strisciare per terra, fino al primo albero utile, intorno al quale finivano per allacciarsi: una tradizione, oggi, ancora viva ad Aversa, paesino del casertano noto per l’alberata.
Vendemmiate a colpi di falcetto, quasi sempre più tardi possibile, le uve venivano pigiate in vasche poco profonde tramite sofisticati torchi, e lasciate poi fermentare in giare di terracotta, quasi completamente interrate nel pavimento. Amanti dei vini dolciastri, la totalità degli scrittori latini raccomandava caldamente di lasciare le uve a maturare fino al limite massimo; Virgilio e Marziale, addirittura, fino al gelo di novembre. Alcuni, intenzionati a ottenere vini più forti e dolci, ricorrevano alla bollitura del mosto; altri aggiungevano grosse quantità di miele al vino.
Ci metteranno poco i Romani a rendersi conto dell’enorme sete dei sudditi della repubblica, e quanto lucrativo fosse contribuire a spegnerla. L’Italia meridionale diventò, in breve, la prima grande cantina di Roma: dal cecubio al massico, dal mamertino al sorrentino, dal trebellicano fino al leggendario falerno, non si contano i cru latini, mentre Pompei diventava in breve il secondo porto vinicolo del mondo. Roma ben prestò finì per dotarsi di proprie zone d’elezione, così il sabino, il tiburtino, il setino, l’albano e il signino, si aggiungono ai primi cru meridionali. Tutti rigorosamente bianchi: l’idea del rosso invecchiato doveva, infatti, ancora venire.
Nascono porte riservate al commercio del vino all’ingrosso: le porte vinarie, collocate verso l’alto corso del Tevere e in direzione del porto di Ostia, smerciavano migliaia di anfore in giro per l’Europa, dalla Spagna alla Gallia fino ai confini del Reno e del Danubio, mentre migliaia di quei cocci andranno a costituire la base per il futuro quartiere di Testaccio.
All’inizio snobbato e guardato con sospetto, il vino era diventato una colonna dell’economia latina. Al crollo della gloria romana, saranno le antiche province a raccoglierne l’eredità e già, tra i boschi e i fiumi, inizia a fare capolino Bordeaux.