Tribolando di pensieri…

fotoAlloggio in albergo. La città è plurimillenaria, con qualche pretesa turistica. Le carte le avrebbe, ma sai com’è: il calcetto, la piscina, lo struscio al bar con gli amici; non c’è tempo per impegnarsi in queste cose.

Mi presento a colazione, assonnato, dopo una notte di cibo, chiacchiere, vino e bell’amicizia. Cerco il cameriere. Penso di chiedergli un caffè, sapete, quell’italica droga.

Lo vedo: è distratto, assente. Mi sforzo di riflettere: quanto gli sarà difficile connettere pensieri e gesti? Meglio la macchinetta. Rigida, certo, ma almeno lei disponibile – se non ad un cenno almeno al mio tocco – a tirare fuori quel beverone metallico, talmente spregevole da fare sembrare migliore qualsiasi altro momento della giornata. Sbrodolo l’intruglio e davvero non riesco a chiamarlo cappuccino: tutto si leva da quella tazza tranne il suo classico aroma di conforto del mattino. L’odore stantio, di bruciato, di cose umide e vecchie, mi inquieta lo stomaco:  afferro una bustina di zucchero; mi trovo spaesato: non ci sono cucchiaini.

Mi faccio coraggio: chiedo al comatoso cameriere se ne posso avere uno; lui, guardando un angolo del tavolo da buffet, mi dice che li ho proprio davanti agli occhi.

Non li vedo, dico.

Ma come! Li vedo io! Proprio davanti a lei. Come fa a non vederli? mi risponde.

Arrivo al tavolo. Eccoli.

Cucchiaini di plastica.

Ma come…!  ammonisco.

Guardi che è da stamani che noi lavoriamo, risponde.

Che stupido – ironizzo con me stesso – e io che pensavo fosse qui di passaggio! 

E mi sorge la domanda: quanti saranno ormai gli anni? Trenta? Da trent’anni abbiamo perso quella bella scuola che era il servizio di sala, e il servizio di accoglienza alla reception.

Ormai conviene fare il conferenziere, l’inappellabile giudice, sia esso chef, critico enogastronomico, giornalista o pseudo tale. Tutti a giudicare e classificare, a cercare di farsi incasellare, in una meravigliosa convergenza di interessi. Ci si può dividere in fazioni, per partito preso, per ideologie. Molto più riposante.

Quanti, allora, sono rimasti ad affrontare con serietà il servizio di sala, la fatica della cucina?

Una riflessione che è rammarico, nostalgia e rabbia; un ragionamento che è valido anche per il lavoro della campagna, e per quello della cantina.

Mi è capitato di bere il vino di un conferenziere, un critico e produttore ben sostenuto mediaticamente: il vino era decisamente “improbabile”, ma guai a dire che puzzava! Saresti stato giudicato convenzionale, che è come dire banale, non alternativo.

Come essere preso per il c… – scusate, per i fondelli.

E se anche questo è diventato banale, forse dovremmo rivedere il nostro concetto di banalità.

Detesto le prese in giro quanto la puzza nel vino. Perché di puzza si trattava, e non di profumo. Esistono odori che possono piacere o non piacere, come quello del tartufo, ma la puzza è un’altra cosa. Il camembert può avere un odore pungente, ma dire che i calzini sporchi puzzano come il camembert è una sciocchezza.

Vado dal fruttivendolo. Lui mi mostra due cassette di mele: una è piena di mele grosse, lucenti e belle; l’altra contiene mele più piccole, da agricoltura biologica. Le seconde sono esteticamente meno belle, eppure, portandole al naso, la differenza si coglie, se ne percepisce la ricchezza di profumo; mangiandole, se ne riconosce il grande sapore.

Anche quando bevo un vino cerco profumi e gusto; non puzze. Mi interessa poco (e mi sembra disonesto) ammettere in positivo l’esistenza di vini “particolari”, quando quella particolarità sta nella sregolatezza, quando quella sregolatezza sta nella puzza. Mettiamoci d’accordo dico io: una cosa sono gli odori, un’altra le puzze e i difetti. Scegliamo cosa appartiene ai primi e cosa va relegato tra le seconde.

Apprezzo l’onestà di chi, conscio dei suoi e dei nostri limiti, sta cercando vie nuove o antiche. Bevo i vini di Nicolas Joly; me li godo. Ma Joly era in grado di fare vini eccellenti anche prima. Bevo i vini de la Stoppa, li apprezzo per profumi, piacevolezza e beva, ma Pantaleoni faceva buoni vini anche prima.

Mi risulta incomprensibile, invece, chi ad ogni costo vuole giustificare vini e prodotti che nulla hanno a che fare con i profumi della cantina, con i profumi della natura. La natura non puzza.

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Camillo Privitera

Ha nobili origini, Adamo ed Eva. A 18 anni esce di casa per non tornare mai più, si iscrive a Bologna alla facoltà di Filosofia, provenendo dall’ ITIS (pericolosissima sigla). Dell’esperienza dell’istituto tecnico gli è rimasto qualche numero di telefono che usa soprattutto per farsi cambiare le lampadine. Orgogliosamente si mantiene da quando aveva 18 anni. Inizia lavorando nella riviera adriatica e lì l’università lo perde per la fortuna del mondo accademico. Lavora nei locali iniziando dal basso fino a diventare direttore e ad avere locali propri. Capisce che con volontà, studio e lavoro si può riuscire. Non apprezza i “dottori”, ma ama i Signori. Da sempre progetta e organizza riviste, concerti, eventi. Incontra il vino e son botti. Segue la trafila AIS: sommelier, degustatore, relatore e ad oggi Presidente AIS Sicilia, editore di EnoNews. Ama camminare nel solo modo che conosce e apprezza, guardando in alto per avere la più ampia visuale. E il meglio deve ancora venire.

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