Hofstätter e Lageder: lo yin e lo yang dell’Alto Adige
Non sono nemmeno dieci i chilometri della strada provinciale del vino che li separano: entrambi alle porte meridionali dell’Alto Adige, entrambi nella zona dell’Oltradige – Bassa Atesina, entrambi produttori di vino. Nonostante le vicinanze, le due cantine di cui parliamo sono assai diverse tra loro.
Parliamo di cantine, ma intendiamo uomini; uomini assenti al momento della nostra visita, e dunque difficili da descrivere, se non facendo appello, come alcuni critici letterari (e con sommo disprezzo di Proust), al contenuto delle relative opere, nella speranza di cogliere, tra le righe, un indizio del carattere, un frammento della propria visione.
Infatti, se il vigneto è la carta e il vitigno è la penna, è la mano del custode, in ogni caso, a tracciarne il segno, a raccontarne la vicenda, da leggere una volta cavato il tappo e versato il vino nel bicchiere.
Potevamo nascondere i nostri autori dietro i nomi di Nikolaj e Andrej, perché tanto simili ce li figuravamo ai due indimenticabili uomini di un noto romanzo di Tolstoj; poi, in cerca di riferimenti più aderenti alla terra in cui ci trovavamo, abbiamo optato per Adrian e Serenus, facce speculari del tormentato Doktor Faustus di Thomas Mann, e, in verità, di lui medesimo. Infine, l’approdo ad una curiosa mistura tra gli uni e gli altri: un amalgama tra la ragione logica, la lucidità illuministica di Serenus e la rude essenzialità di Nikolaj per uno e una combinazione tra l’amore ossesso per l’arte, la capacità creativa di Adrian e l’ambizione sofisticata di Andrej per l’altro.
Basta attraversare le rispettive cantine per trovare appigli reali ai nostri ritratti ideali. Asciutta, riservata e discreta una, percorsa da lampanti mappe di zonazione, coi i nomi dei vigneti stampati su cartine di rigore prussiano. Magnificente, vanitosa e un po’ compiaciuta l’altra, abitata da tini di fermentazione immacolati e illuminata da tetti a giorno e cubi trasparenti riempiti coi carotaggi dei vigneti.
Significativi, per la nostra indagine biografica, anche i rispettivi accompagnatori: laconico ma percorso a tratti da un moto di amore vitale contenuto a forza uno; dalle fantasie sgargianti della camicia e dalla loquela estroversa ma un po’ costretta, l’altro.
Non è difficile immaginare un incontro tra queste due autorità del vino altoatesino, incontro certamente avvenuto decine di volte: magari freddo, circospetto, come la stretta di mano tra l’ussaro Rostov e il nobile Bolkonskij, magari appassionato e amichevole, costellato di dibattiti su argomenti amati da uno e di cui l’altro non vuol sentir parlare più di tanto. Non sulla teologia, come per l’appassionato Leverkühn e il distante Zeitblum, ma sul biologico, e sulla biodinamica.
Questa la pietra alla base del muro di divisione ideologico: una pietra angolare per l’uno, evangelicamente provata, preziosa e solida; non necessaria, gravata da fronzoli e aspettative esorbitanti per l’altro.
Facile, a questo punto, intuire i nomi dei due protagonisti: Martin Foradori Hofstätter e Alois Lageder. Il primo è l’emblema dell’aurea medietas, del franco compromesso: l’uomo del guyot ma per la salvaguardia della pergola trentina, ideale per tutelare la pianta dal caldo; l’agricoltore dello zolfo in vigna eppure a favore della chimica quando la peronospora si fa ostinata.
Il secondo è il guru della biodinamica, senza se e senza ma: l’uomo dall’approccio olistico, convinto al di là di ogni ragionevole dubbio – per dirne una – della proprietà igroscopica del corno letame nei vigneti, a beneficio di una maggiore capacità di idratazione del terreno.
Alla degustazione, in un curioso rovesciamento di ruoli, i vini del silenzioso e borghese produttore illuminista urlano subito il loro statuto, e, come il maestro Pfuhl con Hanno Buddenbrook, si sbracciano subito prepotenti, nel timore che il degustatore abbia la tracotanza di non rendersi conto del virtuoso tesoro a portata di naso, come i fedeli della domenica a Lubecca, perduti dietro l’orazione del prete e insensibili alle difficoltà affrontate dal maestro d’organo per raggiungere le vette sonore tracciate da Bach.
Durante la degustazione del sofisticato Adrian biodinamico, invece, tre righe di Karl Kraus lampeggiano ammonitrici davanti ai miei occhi mentre mi sforzo di attendere l’apertura di vini tutt’altro che aperti e disponibili
Bisogna leggere due volte i miei lavori, per avvicinarsi a essi. Ma non ho nulla in contrario se li si legge tre volte. Comunque preferisco che non li si leggano affatto, se li si deve leggere una volta sola. Non vorrei prendere alcuna responsabilità per le congestioni di una testa vuota che non ha tempo.
Quel tempo, avaro, che non ci ha permesso di concedere a quei calici il tempo debito per esprimersi, per compiere quella rilettura necessaria a una valutazione completa del lavoro di un produttore prezioso per la sua terra e appassionato al proprio mestiere.
Chiacchierando tra colleghi, il giudizio sull’ipotetica superiorità dell’uno o dell’altro rimane dunque sospeso. Al di là dell’ozioso dibattito sul vincitore, Hofstätter e Lageder rimangono l’esemplare taijitu della viticoltura altoatesina, lo yin e lo yang di una realtà dove tutto, o quasi, sembra essere fatto, sperimentato, indagato, per tutelarsi dalle bizze di un clima sempre più incerto, sempre più sconvolto.
Leverkühn o Zeiblum, idealisti o realisti, biodinamici o meno, mettessero tutti il medesimo laico impegno di questi uomini così diversi, sul futuro delle vigne in Italia ci sarebbe da stare un po’ più tranquilli.
foto di Flavia Catalano
Hofstätter
Lageder