Tutto il fascino dei lieviti scoperto nei vini e nelle terre d’elezione
Si sa che nella storia dell’uomo e nel suo adattamento al mondo circostante le migliori scoperte sono avvenute per caso. Oggi molto spesso dobbiamo e possiamo affidarci solo a delle leggende, spesso non documentabili, come nel caso del formaggio, di cui si racconta che un mercante arabo, dovendo attraversare il deserto, portò con sé del latte fresco contenuto in una bisaccia di stomaco di pecora trovandolo poi all’arrivo trasformato in “formaggio”, grazie alla riattivazione di enzimi e lieviti presenti nelle pareti dello stomaco mediante il calore; o del pane lievitato, sulla cui origine si narra che una schiava egizia per caso dimenticò la pasta destinata alla preparazione di alcune gallette e la trovò poi gonfia grazie ai lieviti spontanei formatisi sulla pasta; decise di cuocerla ugualmente e ottenne un pane più gustoso e morbido; o ancora del vino, la cui scoperta fu probabilmente anch’essa casuale e dovuta a fermentazione spontanea avvenuta in contenitori dove gli uomini riponevano l’uva; e che dire dello champagne e della presunta storia della sua rifermentazione (incontrollata) in bottiglia, studiata e in seguito perfezionata dall’abate Dom Pérignon. E l’elenco potrebbe continuare. Ma i veri protagonisti di questi fenomeni un tempo inspiegabili sono dei microorganismi unicellulari, e più precisamente vari ceppi di Saccharomyces cerevisiae.
Fra i molteplici “incidenti” di tipo microbiologico ve n’è uno che ha una doppia veste: di disgrazia vera e propria durante la vinificazione (è chiamato fioretta, si tratta di una sorta di velo biancastro di aspetto polveroso costituito da colonie di lieviti fra cui la Candida, si forma in vini di bassa gradazione alcolica, a contatto con l’aria, in botti scolme e non adeguatamente solfitate) ma anche di miracolo, in questo caso voluto, cercato, curato: parliamo della vinificazione sotto flor, un biofilm composto da aggregazioni di ceppi vinari di Saccharomyces cerevisiae del tipo bayanus, rouxi e altri, che isola il vino dal contatto diretto con l’aria e lo protegge da un’ossidazione brutale. Il fascino di questi lieviti è costituito dalla loro “doppia vita”, infatti, grazie al gene FLO 11, attivo solo nei flor, questi assumono l’eccezionale capacità di vivere due volte. La prima è costituita dalla normale attività anaerobio-fermentativa durante la quale essi trasformano gli zuccheri in alcol e anidride carbonica. Al termine del processo, i lieviti muoiono a causa dell’alcol che loro stessi hanno prodotto, precipitando sul fondo del contenitore. Il “miracolo” dei ceppi flor sta in un cambio di metabolismo (shift diauxico, per essere un po’ tecnici) che trasforma l’azione in tipo aerobio-ossidativo: avviene dunque una sorta di resurrezione e di risalita, all’improvviso i lieviti riescono ad utilizzare l’ossigeno e a nutrirsi di quello stesso alcool che avrebbe dovuto ucciderli. Consumando alcol, i flor ossidano etanolo e restituiscono acetaldeide, un precursore aromatico che legandosi ad altre molecole (tra cui etanale e sotolone) conduce ai tipici sentori di noce, di mandorle o nocciole tostate, zafferano, genziana, mela al forno, sentori eterei e di mirrato, di scorze d’arancia e di albicocche secche, di miele amaro, di spezie come la cannella e la vaniglia e nelle annate più vecchie anche profumi di funghi secchi, di muschio e di sottobosco!
Ma questo miracolo enologico avviene solo in pochi luoghi e con pochi vitigni, è imprevedibile nella tempistica in quanto la florizzazione può attivarsi entro Natale, coi primi tepori primaverili o anche mai, e negli esiti, essendo strettamente legato al territorio e al clima. Ricercatori hanno potuto appurare che se si trasferisce la flor dalle poche zone tipiche ad altri luoghi del mondo, essa cambia velocemente i suoi caratteri oppure muore, caratteristica che rende questi vini d’affinamento biologico ancora più speciali. La permeabilità della cantina agli agenti atmosferici è un elemento importante spesso presente. I lieviti flor, stratificatisi lentamente nel tempo, costituiscono anche il capitale microbiologico autoctono di ogni cantina, rappresentando così una sorta di appendice di terroir.
A questo punto, o forse già dall’inizio del nostro viaggio, vi starete chiedendo quali sono questi pochi luoghi dove poter degustare questi vini particolari, figli dell’unione sinergica e talvolta funambolica e aleatoria fra il territorio, i lieviti e l’ossigeno.
Dall’omonima città di Jerez de la Frontera in Andalusia, il più famoso vino di affinamento biologico o sotto velo di flor si chiama Jerez o Sherry, ma solo nelle tipologie Fino e Manzanilla (prodotto, quest’ultimo, esclusivamente a Sanlùcar de Barrameda, più delicato ed elegante del Fino, secco e sapido, grazie al forte influsso delle umidi correnti d’aria provenienti dall’Oceano Atlantico. Il vitigno principe è il palomino. Il particolare suolo della zona è caratterizzato da un’alta percentuale di sedimenti gessosi (come in Champagne) ed è chiamato albariza, altamente poroso e capace di trattenere acqua e aria.
Da una delle più piccole regioni vinicole della Francia, lo Jura, arriva il grande Vin Jaune, da uva Savagnin, vitigno autoctono. Il clima della regione è semicontinentale, con diversi microclimi, ma comunque con un buon numero di ore di insolazione e forti escursioni termiche. Il terreno è calcareo permeabile, con marne blu e rosse, ricco di fossili. Questo vino ad ossidazione controllata viene lasciato per sei anni e tre mesi in botticelle da 228 litri, senza travasi né ricolmature (sans ouillage), protetto e “plasmato” solo dal velo di flor. A proposito… sarà un caso che i lieviti furono scoperti e studiati la prima volta dal leggendario Louis Pasteur, che trascorse una parte fondamentale della propria vita esattamente ad Arbois in Jura ad approfondire microrganismi e mosti, la trasformazione dei lieviti e il processo misterioso delle fermentazioni? In ogni caso il Vin Jaune esisteva già prima, qualche anno fa ne fu battuta all’asta per 57 mila euro una bottiglia del 1774, non si chiamava ancora Vin Jaune perché il termine si trova nei registri dello Jura solo dall’inizio dell’Ottocento. Fu prodotto da tale Anatoile Vercel ai tempi di Luigi XVI, anzi proprio nell’anno della sua ascesa al trono, e conservato per generazioni dalla famiglia Vercel. Nel 1881 il millesimo 1774 fu assaggiato addirittura da Louis Pasteur. All’epoca non esisteva ancora la tradizionale bottiglia da 62 cl chiamata clavelin, infatti quella battuta all’asta ne conteneva 87. La clavelin è una bottiglia particolare che prende il nome da un abate di Château Chalon (pittoresco villaggio abbarbicato sulla roccia nel cuore dei vigneti dello Jura ma anche il nome dell’AOC in cui ricade la produzione del Vin Jaune), che per primo la adoperò, ed è l’unica autorizzata per l’imbottigliamento. I 62 cl simboleggiano il 62% che rimane nella barrique dopo i 6 anni e 3 mesi in cui la cosiddetta part des anges è evaporata. La sacralità enologica di questo vino è tale che vi si dedica ogni anno una festa chiamata la Percée du Vin Jaune, che si potrebbe definire la festa della spillatura, con tanto di botticella benedetta/sacrificata sull’altare di una chiesa che cambia ogni anno. Quest’anno si è tenuta la 21^ edizione della Percée nel villaggio di L’Etoile. Ovviamente intorno a questo rito ruota una vera e propria festa di paese con fanfare, musicanti, giochi, assaggi dei prodotti locali, fra cui l’immancabile formaggio Comté, tipico abbinamento della tradizione col Vin Jaune.
E dopo esserci dilungati forse troppo sul “vino giallo”, è doveroso un cenno ad un vino commercialmente poco conosciuto e purtroppo in via d’estinzione, la Vernaccia di Oristano, il cui principale produttore è attualmente l’azienda Contini. I vigneti si trovano nella fertile piana di Oristano, di origine alluvionale, che presenta due tipologie di suolo: il bennaxi (profondo, ricco di limo e argilla, color bruno-giallastro) e il grégori (più magro e sassoso). Qui la Vernaccia è di casa da sempre, come testimoniano dei ritrovamenti archeologici risalenti a tremila anni fa. Sotto il profilo aromatico l’uva è neutra, ma dopo il lungo intervento dei nostri amici lieviti flor le migliori annate di questo vino acquistano un bouquet complesso e singolare, particolarmente intenso, che in sardo ha un suo termine univoco di murruau, utilizzato per indicare l’inconfondibile sentore di frutta secca legato alla lenta ossidazione. L’etimologia della parola da qualcuno è collegata per assonanza al vino murratum (arricchito di mirra, dunque “profumato” in senso lato) risalente agli antichi Romani che arrivando sull’isola potrebbero averlo già trovato così. E’ un vino adatto a piatti a base di pesce di una certa struttura, zuppe speziate, ricci, bottarga.
E dunque cosa accomuna questi vini così difficili e rari ma affascinanti, nati in terroir diversi uno dall’altro? Il tempo, che è lungo nella produzione e quasi eterno nell’invecchiamento, l’ossidazione e la quasi miracolosa azione di questi ceppi di lieviti.
Se queste poche righe (poche rispetto alla complessità microbiologica di questo gioco di equilibri che talvolta semplicemente accadono, non si producono) sono state capaci di suscitare curiosità nei lettori, lo scopo è stato raggiunto.
Adesso sta a voi lasciarvi sorprendere e andarli a scoprire direttamente nelle loro terre d’elezione, che sono terre magiche anche dal punto di vista turistico!