Perché non sappiamo comunicare il vino?
Se l’è chiesto Daniele Cernilli una settimana fa: perché il vino non sa comunicare al grande pubblico? La risposta è molto complessa, e dunque semplicissima: perché non sappiamo farlo.
Secondo Cernilli, un abisso separa i comunicatori volontari di oggi da quelli “involontari” di trent’anni fa, a partire da Luigi Veronelli.
L’esempio felice è quello della trasmissione degli anni Settanta “A tavola alle 7”, condotta da Veronelli assieme ad Ave Ninchi. Disponibile negli archivi Rai, vale la pena dargli una occhiata: la capostipite delle trasmissioni di cucina italiana rappresenta tutto quello per cui i produttori di oggi licenzierebbero: un conduttore colto e garbato, una conduttrice rotonda e materna (una che diceva: “non è una questione di peso, è una questione di testa”); un breve quiz senza ansie; una sfida amichevole tra i fornelli, senza inquadrature da autopsia sul cibo in preparazione; una cena conclusiva tra concorrenti e giudici, commentata tra un boccone e un bicchierino, quello buono, senza dover dire che odora di cuoio e mora di rovo.
Quanta differenza con oggi: inquadrature ossessive dei piatti e fotogrammi che ti fanno sentire uno stronzo incapace, perché tu la carota à la julienne con i tocchetti tutti della stessa misura non la sai fare manco se usi la carta alimentare millimetrata. Cene con contorno di bile da Hell’s Kitchen, sberle da Cannavacciuolo, latrati da Gordon Ramsay e sessioni al cardiopalma da MasterChef, lì dove l’infarto si cela dietro ogni ingrediente: viene su una nostalgia mostruosa della Wilma De Angelis su Telemontecarlo, quella che non sapeva cucinare una mazza, ma non trasformava la cena nella finale delle olimpiadi.
Tanto distesa, agnostica quella televisione, quanto minacciosa, agonistica questa. Uno degli atti più affettivi del mondo – cucinare – trasformato in agone, con tanto di colpi bassi, insulti e scherni: allori per i vincitori, infamia per i perdenti.
Va meglio col vino? Certo che no, anzi! Per lui niente coreografie e niente preparazioni: bianchi e rossi, passiti e bollicine scontano il proprio mutismo. A prestargli la voce, troppo spesso, personaggi di venefica saccenteria, di insostenibile snobismo; quelli che, oltre alle i, metterebbero volentieri i puntini sul resto dell’alfabeto, perché nel mondo del vino non esistono opinioni, solo precisazioni: le proprie s’intende. Pensate al Paul di Midnight in Paris di Woody Allen: carismatico, eloquente, colto; ma quale cliente vorrebbe essere servito al ristorante da un pedante rompicoglioni capace di brigare con una guida turistica sul matrimonio tra lo scultore Rodin e la moglie? Per di più quando la guida è Carla Bruni…
Con buona pace di Paul Ricoeur, che ne aveva parlato a proposito di Marx e Freud, la cultura del sospetto oggi è diventata culto del sospetto. Non ci si accosta al bicchiere di vino con la curiosità di conoscerlo ma con l’ansia di stroncarlo: troppo commerciale, troppo di nicchia; troppo legno, troppo poco legno; troppa volatile, troppi volatili.
Le chiacchiere sul vino? Una gara a chi ha il calice più lungo; un pubblicare ostile di etichette. Vietati errori, imprecisioni, sbagli: durante una degustazione fare confusione col vitigno, o intravedere il legno dove non c’è ombra di verde, non significa risate e pacche amichevoli, ma derisione e perdita di potere. Stretto tra i culturisti dell’esibizione, come può il gracile neofita farsi un bicchierino senza doversi sentire un ingombrante imbecille?
Sommelier, comunicatori, giornalisti: a loro il compito di mutare questa seriosa marcia trionfale in un disimpegnato rondò. Difficile, certo, dare voce a qualcosa che sa di pepe della Tasmania, Cannella di Senigallia (occhio alle maiuscole) e ciliegia moretta di Vignola. Si può conquistare il vasto pubblico liquidando un rosso con un laconico fatto diciotto mesi in barrique? L’arcinota casalinga di Voghera non penserà forse ad un anno e mezzo di sosta del vino nelle carceri francesi?
Scegliere un’etichetta dalla carta deve somigliare per forza ad una interrogazione? Aprire una bottiglia di vino deve essere sempre un atto così ingombrante? Pare di sì. Tu non puoi reggere la verità! urlava a Tom Cruise il colonnello Jessep (Jack Nicholson) in Codice d’onore, e così la pensano questi accigliati esperti: se al ristorante l’ingegnere Bianchi, il muratore Rossi e il costruttore Verdi, vogliono accostarsi ad un calice di rosso (non scelto da loro, s’intende; non ne sarebbero capaci), devono prima consacrare la loro vita al vino, tramutarsi in vestali di Dioniso. In vestali, non in baccanti, perché il vino è misura, non sbraco; è mestizia, mica delizia.
E Veronelli? Nonostante le decine di migliaia di libri letti, e una conoscenza biblica, nei pochi minuti della trasmissione dedicati al vino, poneva domande ad Aldo Bocchino con la curiosità e l’attenzione di chi, pur sapendone poco o niente, era ansioso di saperne tanto senza per questo doversi sentire un cretino: come si fa l’aceto dal vino rimasto a casa? Perché il tappo di sughero? Come mai lo spumante si beve giovane? Dissimulando la propria competenza dietro una sfilza di domande e richieste di conferma, Veronelli raccontava, insegnava, allo spettatore di casa, senza apparire saccente, senza risultare noioso.
Capace di indossare camicie da hippie e occhiali a lenti doppie senza perdere un briciolo di autorevolezza, Veronelli, garbato e signorile, non ingombrava mai, non pesava per nessun motivo sugli altri. Quel modo leggero di comunicare, oggi, sembra un po’ come la sua anarchia, come i suoi inviti alla rivolta, come quelle mitiche camicie: irrimediabilmente di cattivo gusto. Siamo ancora in grado di porgere un sorriso di gusto, di sincero entusiasmo, alla domanda del curioso, senza mutarlo in ghigno di scherno, in sorriso di compatimento?
Un po’ come si dovrebbe fare con le persone che si incontrano per la prima volta, il buon critico, e il buon bevitore, prima cerca i pregi in un vino, e poi gli eventuali difetti. Se non sappiamo comunicare il vino è perché non sappiamo comunicare con le persone; e questa non è un’ovvietà.